"ABBÀ, PADRE"

di padre Alessandro Donati
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Un nuovo giorno sta riverberando i suoi colori e i suoi suoni nel risveglio della natura.
Quando tutt’intorno è ancora buio, Giuseppe ama il canto del gallo, limpido, sicuro, tenace, che sembra non scalfire il respiro calmo e lieve del bambino e di sua madre, ancora addormentati uno accanto all’altra.
Senza far rumore lascia il suo giaciglio, raggiungendo il giardino antistante la casa e, come ogni israelita, si lava le mani in un catino e ponendo la sua destra sulla mezuzà, un piccolo astuccio dove è custodito un brano della Torah, recita lo ‘Shemà Israel’ e la ‘Shachrit’, la preghiera del mattino: “I cieli narrano la gloria di Dio, e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono. Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola” (Sal 19).
Gli è sempre risultato naturale affidarsi a Dio. Glielo ha insegnato, con l’esempio e la saggezza suo padre Giacobbe.
Da lui e da sua madre ha ricevuto altri doni, quali un’inalterabile mitezza, la laboriosità e un vivacissimo ingegno, che utilizza in ogni occasione per il bene degli altri.
Anche nell’alba e nelle preghiere di quel nuovo giorno, dopo aver salutato e ringraziato l’Onnipotente, pensa e prega per i suoi familiari, le persone del villaggio, specialmente per i poveri, gli orfani, chi, prossimo alla morte, incontrerà in quel giorno il volto e il giudizio dell’Onnipotente.
Se l’arte del saper affrontare con fede le pieghe del tempo e della storia l’ha assimilata tra la sinagoga e le pareti di casa, l’amore e il rispetto per il suo prossimo hanno cominciato a prendere una consistenza nuova e straordinaria, da qualche anno; tutto è accaduto durante una giornata lavorativa.
Qualcuno era passato nella sua bottega chiedendogli di assumersi la responsabilità dei lavori di ristrutturazione di una nuova abitazione che si voleva costruire vicina alla fonte del villaggio.
Il nuovo proprietario, un uomo ricco e virtuoso, della sua stessa tribù, della famiglia di Davide, aveva deciso di trasferirsi da Sefforis a Nazareth.
Dopo gli accordi preliminari Giuseppe si era recato a visitare il sito definendo modalità e tempi per l’esecuzione dell’opera.
Si era deciso di collocare la prima pietra nel primo mese dell’anno, a Nisan, subito dopo la celebrazione della solennità di Pasqua.
Fu proprio in quel primo giorno che Giuseppe conobbe Maria e da quel momento i loro destini si incrociarono definitivamente.
Alcuni giovani garzoni stavano dandogli una mano nei lavori di muratura. Furono loro a notare per primi e a cercare di avvicinare la figlia unigenita del padrone di casa.
Era molto giovane, dall’aspetto apparentemente esile e dai lineamenti delicati. Invece di comportarsi come le donne di famiglia agiata, abituate a dare ordini, tenendosi lontane dalla polvere e dalla fatica, quella ragazza sembrava comprendere quello di cui c’era bisogno ed era la prima ad essersi rimboccata le maniche.
Portava i sassi, gli strumenti di lavoro, le giare dell’acqua per la purificazione e per lavarsi le mani prima di prendere il cibo.
Quell’anno la Pasqua si era celebrata con un clima rigido, trovandosi Nazareth in cima ad una collina sbattuta dai venti del Nord. Il freddo era pungente, ma lei sembrava non avvertirlo e non si lamentava.
Giuseppe ricordava ancora il colore del suo vestito: verde oliva. Quella tunica e il velo bianco che ricopriva i suoi lunghi capelli castani la facevano sembrare una regina, in un continuo gesto di bontà e di servizio nei confronti del suo popolo.
La Torah aveva insegnato a Giuseppe a riconoscere l’apparire della grazia celeste, quel dono dall’alto che porta nell’anima degli umani il tocco dell’amore divino. Quella ragazza ne era ricolma e lo prodigava, senza neppure rendersene conto.
Verso mezzogiorno gli si avvicinò con grande rispetto. Fino ad allora aveva pronunciato poche parole.
Il cuore di Giuseppe intensificò repentinamente il suo pulsare.
Ogni suo gesto era armonioso, semplice e nobile: sembrava esserci in lei una gioia piena e inalterabile.
Si fermò a pochi passi da lui. Gli sembrò di avvertire un delicatissimo profumo di nardo, rosa e gelsomino, raggiungerlo e pervaderlo dalla testa ai piedi. Poi i suoi occhi scuri, grandi e lucenti si posarono nei suoi, rivelandogli in un solo istante tutta la sua umiltà, la sua bontà, la sua innocenza e il suo amore per Dio.
Sgorgarono dal centro del cuore del carpentiere di Nazareth, limpide e vivaci, le parole sante del Cantico dei Cantici. Le pronunciò con il movimento delle labbra, senza farsi sentire da lei: “Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo. Le tue chiome sono come un gregge di capre, che scendono dal monte Gàlaad. Le tue labbra sono come un filo scarlatto, e il tuo parlare è gradevole. Come uno spicchio di melagrana sono le tue guance dietro il tuo velo” (Cant 4,1ss).
La sua voce lo fece sobbalzare, perché nel chiedergli se voleva prendere il pranzo insieme a sua madre e suo padre, nelle sue parole, nel suo modo di esprimersi, percepì la forza della sua anima e la capacità di nobilitare le persone che incontrava.
Accettò tale invito con la gratitudine del suo popolo, quando entrò nella Terra Promessa.
Dopo quel primo incontro, altri vennero a costruire e rafforzare la loro amicizia, il loro legame, il loro comune desiderio di unirsi in matrimonio.
Tutti nel villaggio benedicevano il loro volersi bene. Le loro famiglie, memori delle promesse fatte dal Signore a Israele, leggevano nelle vicende dei loro antenati ed in quelle di quei giovani fidanzati, l’approssimarsi di nuovi e felici giorni benedetti.
Giuseppe lavorava con l’energia del suo giovane cuore innamorato; ma lo faceva senza ansia e senza fretta. Perché Maria era al centro di ogni suo pensiero, di ogni suo desiderio, di ogni suo gesto. Perché Maria lo attirava e accompagnava nel cuore stesso di tutta la sua vita di fede, dove Dio si rivelava vivo, santo e vivificante.
Senza che fosse necessario mettersi d’accordo, come ciascuno dei due aveva fatto fin da bambino, decisero che, una volta uniti da Dio in matrimonio, avrebbero vissuto con lo stretto necessario procurato dal lavoro di Giuseppe. Il sovrappiù lo avrebbero destinato ai poveri, agli orfani e alle vedove.
Un mattino, Maria si presentò nella falegnameria a passi svelti. Il volto era radioso e gli occhi brillavano di una gioia particolarissima. Tese verso di lui le sue mani.
Si erano fidanzati qualche mese prima, al calare del sole, alla presenza di un sacerdote, delle loro famiglie e dei loro numerosi amici. Da quel momento i due giovani potevano incontrarsi e camminare da soli, tenendosi per mano.
Maria, stringendo forte le mani di Giuseppe, gli confidò di voler partire per rendere visita ad una parente anziana nella cittadina di Ain Karim, in Giudea. Il viaggio l’avrebbe fatto, parte in compagnia di una carovana di mercanti, parte a piedi e da sola.
Non sembrava preoccupata, né della durezza del cammino, né dei pericoli che potevano presentarsi durante i quasi cento chilometri del percorso. Giuseppe le propose di accompagnarla, ma lei, quasi custodendo un innocente segreto, gli disse che se la sarebbe cavata da sola, perché l’Onnipotente avrebbe custodito e accompagnato i suoi passi con la sua mano.
Dopo qualche istante di silenzio, Giuseppe accettò tale progetto, avvertendo comunque una repentina e dolorosa fitta al cuore. La sola idea di doversi separare da Maria lo faceva star male. Uomo fedele e obbediente qual era, offrì tale sofferenza al Signore, affinché benedicesse lei e le persone che avrebbe incontrato.
Maria, con una piccola bisaccia a tracolla, partì qualche giorno dopo. Fecero un tratto di strada insieme, cantando a voci alterne il salmo 22: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome”.
Quando vennero raggiunti da un gruppo di commercianti Giuseppe raccomandò al capo carovana la sua fidanzata. Maria si congedò chiedendo la sua benedizione e baciando teneramente la sua mano.
Rimasero separati per tre mesi.
Per Giuseppe questo fu un tempo d’interminabile attesa. Non aveva provato mai nulla di simile in tutta la sua vita. Gli sembrava di aver perso il cuore. Questo pensiero lo rattristava, perché temeva di offendere Dio, che attende di essere amato dalla sua creatura più di ogni altra cosa. Allora, come Mosé sul Monte Sion, pregava più intensamente e affondava il grido nei profondi solchi della Parola eterna: “O Dio, tu sei il mio Dio. All’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua” (Sal 62).
Allo stesso tempo, alla mestizia del suo animo, si era aggiunto una nuova e strana esperienza: questo dolore profondo sembrava avvicinare Giuseppe ad una nuova coscienza di sé, di Maria e del mistero dell’Onnipotente.
Intuiva che quanto Maria stava vivendo, la sua disinteressata sollecitudine, proveniva da un disegno grande, bello e importante.
Presentiva che attraverso di lei il Signore avrebbe operato grandi cose. E a lui veniva chiesto di rendersene conto e di accettarlo; di starle accanto, con tutto il suo cuore e tutta la sua anima, lasciando comunque che Dio potesse essere l’unico protagonista delle scelte e del destino di Maria.
Confidò tali pensieri a suo padre Giacobbe. E questi, con la saggezza dei vecchi, gli disse di abbandonarsi come un bambino all’agire dello Spirito Santo e di pensare alla storia d’amore tra Abramo e Sara, che temevano di non potere avere una discendenza; a Giacobbe e Rachele, che dovettero attendere sette anni prima di potersi sposare; a Tobia e Sara, che riuscirono ad incontrarsi e a formare una famiglia dopo lunghe e pericolose vicissitudini.
Finalmente un giorno, quando il sole stava tramontando, l’inquietudine di Giuseppe si mutò in letizia. La voce dell’arrivo di Maria si diffuse come un grido di gioia di strada in strada.
E con lei la notizia del prodigio avvenuto nella famiglia di Zaccaria e Elisabetta. Dove lei aveva dimorato. Da loro, vecchi e senza figli, Dio aveva fatto nascere un bambino, a cui era stato dato il nome Giovanni. Qualcuno diceva che tale miracolo era accaduto per la presenza di Maria, perché erano in molti a chiamarla “piena di grazia”.
Si rimaneva colpiti dalla sua bontà e carità, soprattutto nei confronti dei bambini e degli ammalati. Perché sapeva prendersi cura di loro come una madre. Fin da bambina, al Tempio di Gerusalemme, sui rotoli della Torah aveva imparato a leggere e scrivere. A Nazareth era lei che, senza disobbedire alle tradizioni, faceva da maestra a molte bambine e ragazze prive di famiglia e di educazione. Era ancora lei a venir chiamata nelle famiglie, quando c’erano discordie e dissapori. E spessissimo, dopo il suo arrivo, gli animi si riconciliavano.
Giuseppe corse per strada senza neppure chiudere l’uscio della sua bottega. Dai sassi di un giardino vide emergere un giglio bianco. Lo colse e lo nascose dietro la schiena.
Attraversò Nazareth con il cuore che sembrava farlo volare. O forse - pensò tra sé – era il cuore di Maria ad attirarlo con straordinaria forza e tenerezza.
Finalmente la vide avanzare verso di lui, camminando lentamente. Portava su di sé un grande mantello, che la ricopriva interamente.
Giuseppe le sorrise con tutto il candore della sua anima. Le donò il fiore con mani tremanti e non smise un solo momento di scrutare quei bellissimi occhi che conosceva e amava più di se stesso.
Qualcosa lo fece trasalire all’improvviso. Come un fulmine tremendo, come una scossa di terremoto.
Maria lo guardava e lo scrutava con uno stupore senza fondo. Si accostava quasi in punta di piedi alla porta del suo cuore, per portarvi o cercarvi qualcosa che lei sapeva esserle accaduto e che Giuseppe doveva conoscere e fare suo.
Poi le sue mani, dopo aver accarezzato con la punta delle dita la barba del fidanzato, scesero e si posarono lentamente sul suo ventre.
La terra sembrò volersi aprire sotto i piedi di Giuseppe, per inghiottirlo, stritolarlo e farlo morire in pochi istanti.
Senti un artiglio attraversargli il cuore e squarciargli l’anima e tutti i suoi sogni.
C’era qualcuno tra lui e Maria. Una presenza che, senza preavviso o ragione, si era imposta radicalmente tra le loro esistenze.
Sorretto anche in quei momenti drammatici dalla sua prudenza e dal suo discernimento, Giuseppe intuì che Maria aveva operato una scelta determinante e definitiva.
Aveva consegnato tutta se stessa e per sempre a qualcuno che meritava tutta la sua vita, il suo onore e la sua purezza.
Vacillò, in un frammento di tempo che gli sembrò infinito, devastante e implacabile.
La gravidanza di Maria, di un figlio che non poteva essere il suo, condusse Giuseppe al di là di tutto quello che egli aveva potuto conoscere e comprendere dei progetti di Dio sulle sue creature.
Non riusciva a reggersi sulle gambe e non riusciva a distogliere gli occhi da Maria. Avrebbe voluto dirle mille parole, ma avendo imparato a conoscerla, sapeva che lei gli leggeva dentro al cuore.
Perciò decise, con un vortice dentro al cuore, di pregare, abbandonandosi a lei, stringendo forte le sue piccole mani: “Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia preghiera. Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi potrà sussistere?” (Sal 129).
Maria aspettava un figlio, Maria era diventata madre e lui, minuto dopo minuto, vedeva crescere dentro di sé l’eclissi dell’unico pianeta sul quale aveva creduto di poter vivere e morire dopo aver conosciuto l’amore.
A tale notte dell’anima si aggiungevano le minacciose parole della Torah per chi, nelle promesse di matrimonio, manca di fedeltà alla parola data.
Durante tutto il tragitto Maria non disse nulla per chiarire i suoi dubbi, per raccontargli quello che era accaduto o per discolparsi. Avvertiva che era addolorata nel più profondo di sé, ma che doveva ubbidire ad un comandamento più grande. Gli stringeva anche lei, con una tenacia che non le conosceva, le sue grandi mani e sussurrava con la sua voce pacata e profonda, alcune versetti del Libro dei Salmi:
“Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo” (Sal 138).
Giunsero infine davanti alla porta della sua casa, quella casa che lui aveva costruito con le sue mani, quella dimora che li aveva fatti incontrare e che credeva avrebbe visto crescere e giocare i loro bambini.
Poi, prima di lasciarsi, quasi sapesse quello che accadeva nell’anima del suo fidanzato, stringendo al cuore il giglio che le aveva donato, disse: “Non temere Giuseppe. Dio è buono, grande e fedele. Se ci toglie qualcosa, non è per castigarci, ma per ridonarcela in un modo nuovo e rendere il nostro cuore ancora più grande per accoglierla”.
Quella notte il sonno di Giuseppe, arrivato dopo una lunga e durissima battaglia fra quanto gli suggeriva il cuore e la legge dei padri, fu visitato da un angelo splendente e forte, che lo esortava a prendere come sposa, Maria. Il figlio che ella portava in grembo, era opera dello Spirito Santo. E lui, accogliendolo come un padre, lo avrebbe chiamato Gesù.
Risvegliandosi Giuseppe avvertì che al posto dei pensieri angosciati della sera precedente, nella sua anima sgorgava, possente e pacifica, la gioia di scoprirsi amato al di là di ogni merito e di ogni desiderio.
L’Onnipotente gli stava rivelando, a lui, povero e indegno figlio della Tribù di Davide, quello che i santi Patriarchi e Profeti hanno conosciuto e rivelato nella Torah. Lui, il Signore del Cielo e della terra, da tutta l’eternità, è ‘rachamim’ (Misericordia). ‘Grembo’, radice e fonte di ogni amore. Come padre e madre plasma ogni uomo e ogni donna, e non può fare a meno di amarli. Come una Madre, le cui viscere fremono di compassione e timore davanti al proprio figlio, dinnanzi al suo mistero, visceralmente parte di lei, è altro da sé: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15).
Giuseppe fu pervaso da tale grazia e si mise in ginocchio davanti alla gloria di Colui che, donandoci Suo Figlio, si stava privando di tutto il suo bene. E chiamava lui, un semplice operaio di Nazareth, a divenire il Custode di quel Figlio e lo Sposo della Madre del Signore.
Si presentò alla casa di Maria quando il villaggio era ancora addormentato.
‘Ora bisognerà provvedere…’, le disse con la pace nel cuore. E non disse più nulla, ma guardò il corpo di Maria e Lei divenne di porpora e dovette sedersi per non rimanere così esposta nelle sue forme allo sguardo che l’osservava.
‘Bisognerà fare presto – aggiunse Giuseppe - Io verrò qui… Compiremo il matrimonio… Nell’entrante settimana. Va bene?’.
‘Tutto quanto tu fai va bene, Giuseppe. Tu sei il capo di casa, io la tua serva’.
‘No. Io sono il tuo servo. Io sono il beato servo del mio Signore’.
Il loro matrimonio avvenne qualche settimana dopo e sarebbe stato ricordato per molto tempo, anche nei villaggi lontani.
I due sposi avevano un aspetto regale. Un festoso corteo, al calar del sole, li accompagnò dalla casa di Giuseppe a quella di Maria. Accogliendolo, la ragazza venne ricoperta da un velo prezioso. Proseguirono verso la loro casa, camminando mano nella mano, sulla strada rischiarata da centinaia di lampade ad olio portate dagli invitati alle nozze.
Giunti alla loro dimora, Maria, come la figlia di un re, prese posto sotto un baldacchino, e cantò un inno d’amore. Giuseppe, pronunciando una preghiera, regalò a tutti la felicità della sua anima.
Tale giubilo coinvolse tutti e durò un’intera settimana. Ci fu cibo in abbondanza, il vino migliore del Paese di Canaan. Non mancarono le danze, i giochi per i bambini, i regali e la benedizione dei sacerdoti venuti da Gerusalemme.
L’esultanza delle nozze maturò nell’alveo spazioso e orante della loro laboriosa e serena vita domestica. Risuonavano di giorno in giorno le parole del salmo cantato in coro per il loro matrimonio dai rabbini del villaggio: “Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene. La tua sposa come vite feconda nell'intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa. Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il Signore” (Sal 127).
L’abilità di Giuseppe aveva sempre nuove richieste e nuovi clienti. Maria si muoveva con grazia e generosità nelle sue mansioni di sposa e signora del focolare.
Il bambino cresceva in lei, giorno dopo giorno.
Cresceva ugualmente negli sposi la consapevolezza di essere depositari di un dono inestimabile e di una missione altrettanto grande.
Giuseppe, durante i suoi lavori, attendeva con ansia di poter tornare da Maria, perché la vedeva diventare di giorno in giorno sempre più bella e ricolma di una grazia che proveniva dall’Onnipotente.
Gli bastava oltrepassare l’uscio di casa per sentirsi pervaso da una gioia che si rinnovava e che conduceva entrambi a conoscersi sempre meglio. Guardava estasiato Maria, mentre preparava da mangiare, o si occupava delle loro pecore, o quando tornava dalla sorgente con un’anfora colma di acqua. Non si stancava di assistere allo spettacolo del suo essere tutto intero. Anche a lei, lo si notava dalla lucentezza dei suoi occhi, il cuore batteva forte quando lo riaccoglieva a casa prendendolo nelle sue braccia.
Modesta quale era Maria non gli avrebbe mai concesso di fare, né in pubblico né in privato, il suo elogio. Ma Giuseppe sapeva di aver trovato in lei quello che il saggio loda nel Libro dei Proverbi: “Una donna forte e virtuosa chi la troverà? il suo pregio sorpassa di molto quello delle perle. Il cuore del suo marito confida in lei, ed egli non mancherà mai di provviste. Ella gli fa del bene, e non del male, tutti i giorni della sua vita” (31,10-12).
Di tutti i momenti di intimità con la sua sposa quello che egli attendeva con umile speranza si celebrava ogni sera, dopo che il sole, tingendo il cielo di mille colori, sembrava accarezzare gli alberi e i tetti delle case con i suoi ultimi raggi. Maria accendeva la lucerna, e recitava la benedizione.
Giuseppe aveva sempre osservato suo padre e sua madre mentre pregavano. Al tempio di Gerusalemme e nella sinagoga di Nazareth sacerdoti, scribi e anziani, pronunciavano lunghe preghiere.
Ma nessuno aveva il raccoglimento di Maria, quando si rivolgeva all’Onnipotente. Il Talmud, il testo che raccoglie secoli di meditazione sulla Bibbia, definisce l’uomo come ‘la creatura che prega’. Sempre secondo il Talmud il termine nèfesh (‘anima’) è sinonimo di ‘preghiera’.
Maria era la visibilità di questo mistero.
Standole accanto Giuseppe respirava la sua vita di preghiera. La osservava con infinito pudore quando si accorgeva che stava recitando una preghiera personale. Univa la sua voce a quella preghiera di intercessione. Si rivolgeva a Dio con la familiarità e la fiducia di un amico, di un bambino. La sua preghiera diventava inno, lode. Giuseppe rimaneva abbagliato dallo splendore e dalla potenza di Dio, che si rendeva percepibile dall’esultanza dell’anima della sua sposa.
Ogni sera Maria, ponendo una mano sul suo ventre e prendendo con l’altra la mano di Giuseppe gli chiedeva di pronunciare una delle ‘Berakot’ (benedizioni):
“Facci riposare, Signore Dio nostro, in pace e fa’, o nostro re, che ci rialziamo per la vita e per la pace. Stendi sopra di noi la protezione della tua pace e difendici, dirigici con un consiglio buono che provenga da te e salvaci in grazia del tuo Nome.
Sii protezione intorno a noi e allontana da noi il nemico, la peste, la spada, la fame, l’angoscia, l’afflizione; allontana satana davanti a noi e dietro a noi. All’ombra delle tue ali nascondici, perché tu sei un Dio che custodisce e salva, un Dio che è re, che usa grazia e misericordia. Sii benedetto Tu, o Signore che custodisci il Tuo popolo Israele per sempre. Amen”.
Talvolta la luna faceva filtrare la sua luce attraverso la finestra della loro dimora.
Sembrava sfiorare il corpo di Maria, mettendo in evidenza l’avanzare della prodigiosa gravidanza.
Giuseppe si accostava a tale mistero con gli occhi della fede. Si scopriva beato ed allo stesso indegno di essere stato chiamato a partecipare a tale evento messianico.
Vegliava su Maria e su quel bambino che, pur non essendo ancora venuto alla luce, era il centro di ogni loro pensiero, gioia e progetto.
La notizia di un censimento proclamato dal governatore romano Publio Sulpicio Quirinio nelle province di Siria e Giudea mise la città di Nazareth in agitazione. Ciascuno doveva recarsi nel luogo di nascita per farsi censire. Anche Giuseppe, dalla Galilea, da Nazareth, doveva salire a Betlemme.
Egli cercò ripetutamente di convincere Maria a rimanere a Nazareth. Voleva rassicurarla, nello sviluppo della sua gestazione. In realtà era stato lui, al suono della sua voce ancora così fanciulla, a ritrovarsi l’animo rivestito della sua pace.
Dopo alcune settimane si misero in cammino, Maria a dorso di un asinello, Giuseppe camminandole a fianco, poco dopo il sorgere del sole della metà di dicembre.
Strada facendo crescevano in lui paure e timori. Ed il suo cuore gli suggeriva di chiedere a Dio una fede sempre più grande, capace di leggere in tutte le cose il disegno della Provvidenza.
Osservava i gesti di Maria, presentendo che ogni miracolo è preceduto da tanti atti d’amore, formulati spesso da cuori impauriti e da mani vuote.
Maria era salda, vigile e materna. Le sue parole erano luce ai loro passi e li riconducevano alla Storia santa del loro popolo, alla schiavitù d’Israele in Egitto, al suo pianto e a tutte le preghiere che gli esuli elevavano al trono dell’Altissimo.
In una notte santa quella moltitudine fu liberata e nell’agnello immolato celebrò la Pasqua, profezia e memoriale dell’agire salvifico del Signore Onnipotente.
Di questi eventi i due sposi parlavano tra loro, mentre uno accanto all’altra, salivano dal loro piccolo villaggio alla profetica città del Re Davide, nella regione della Giudea.
Ero un procedere dentro i solchi di una via dove le generazioni dei padri li avevano preceduti.
Sentivano gli echi di quei canti di lode pronunciati nel cammino dell’esodo, come pure le lacrime sgorgate per una rinnovata paura o per la disobbedienza all’alleanza. Ma era sempre dominante l’esultanza di mille voci che assomigliavano al brillare di quegli astri che vegliavano sulle loro notti passate all’addiaccio, che dicevano che il nome dell’altissimo è infinita misericordia e fedeltà alla parola data.
La fiducia sconfinata di Maria, ‘Figlia di Sion’, ‘Arca Santa’ della presenza dell’Altissimo, ‘Roveto vivente’ della Gloria di Dio, segnava il passo e apriva a Giuseppe un vivido orizzonte dove la terra intera sarebbe stata benedetta dalla nascita del Figlio della Promessa.
Maria, nella sua preghiera e nel suo prendersi cura di Giuseppe, ringraziava il Signore della forza virile del suo Sposo, della sua fede semplice e cristallina, del suo essere l’Uomo Giusto di cui si proclamano le lodi nelle Sacre Scritture.
Anche il suo saper custodire la virtù del silenzio, nel farsi da parte per lasciare spazio al rapporto con il bambino che portava nel suo seno. Questi pensieri acuivano in lei, di giorno in giorno, la coscienza di essere oggetto della più grande tenerezza di Dio, che la stava preparando alla sua futura missione attraverso l’amore verginale di suo marito.
Di tappa in tappa, di villaggio in villaggio, in questo santo pellegrinaggio nella storia santa d’Israele. Fino a quell’ultima collina, dalla quale scorsero nitidi e belli i comignoli fumanti di Betlemme.
Fu allora che scorsero in cielo, più bella e splendente di tutte le altre, una luce vivida che sembrava voler illuminare gli ultimi passi. A tale vista, quasi raggiunta da un’ispirazione celeste, Maria fece sua la parola pronunciata qualche secolo prima dal profeta Michea: “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall'antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele” (5,1-2).
Tale stupore non si era ancora dissolto che nel loro animo fece il suo ingresso un dolore ripetuto ed incomprensibile.
Bussavano alle porte del paese natio di Giuseppe, chiedendo alloggio con un sorriso e mostrando la gravidanza della giovane sposa. Ma gli usci si richiudevano inospitali, segnando l’anima di Maria come un presagio di futuri cuori induriti all’apparire della grazia.
Questi rifiuti spalancavano ininterrottamente la sua preghiera a quel bambino che ella sentiva agitarsi sotto al suo cuore.
Era sempre la Parola della Torah a sostenerli, quella Parola che quando veniva pronunciata faceva sussultare anche il piccolo nel ventre di Maria: “Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici. Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti impetuosi; già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali. Nel mio affanno invocai il Signore, nell’angoscia gridai al mio Dio: dal suo tempio ascoltò la mia voce, al suo orecchio pervenne il mio grido” (Sal 18).
Giunsero quasi senza accorgersene all’imboccatura di una piccola grotta. Il cielo si stava tingendo del chiarore tenue di piccole nubi e del volo di placidi uccelli. Giuseppe provvide al fuoco, Maria spezzò per sé ed il marito l’ultimo pezzo di pane rimasto nella loro bisaccia. Come un lamento lontano, videro l’ultimo raggio di luce riflettersi nel fondo della grotta. Solo il volto della Madonna sembrava privo di ombra, di paura o di qualsiasi affanno.
Scorgendo sul suo pallido volto un invincibile fremito di timore, chiese al suo sposo di avvicinarsi e di non permettere alla paura di allontanare la fede dai loro cuori.
Le ore del travaglio spinsero Giuseppe alla ricerca di una donna che potesse aiutare la moglie a dare alla luce il dono dell’Altissimo. Giunti alla grotta, con fare esperto e delicato, gli chiese di allontanarsi un poco e di continuare a pregare.
Tutt’attorno c’era un silenzio colmo di attesa, quasi l’intero universo stesse tenendo il proprio fiato in sospeso.
Giuseppe non seppe mai quanto durò la sua ininterrotta preghiera. Una mano toccò la sua spalla; egli sollevò lo sguardo e scorse il volto estasiato della levatrice. Sembrava portare nei suoi occhi la letizia della sua anima. Gli fece cenno di entrare.
A piccoli passi, tremante e intimorito, Giuseppe avanzò verso la sua sposa.
La vede segnata dalla fatica del parto e purtuttavia desta e con il bambino appoggiato sul suo seno.
Contempla il Frutto benedetto da tutte le generazioni, Colui che è stato tanto bramato, invocato, e annunciato. Lo culla, gli sorride e sembra volerlo proteggere.
Giuseppe si accorge e si commuove scorgendo la loro somiglianza. La forma dei suoi occhi e le sue tenere labbra vermiglie, sono quelle della madre.
Maria è china sul neonato.
Giuseppe riesce a vincere il timore di interferire in tale dialogo d’amore. Si avvicina e si inginocchia, adorando quel “Verbo fattosi mortale”, e gli dona tutto il suo cuore, e la sua anima.
Profuma di narciso, di rosa e gelsomino quel bambino, sorretto dalle braccia della madre che canta come una ninna-nanna la sua lode e la gioia: “L’anima mia magnifica il Signore, ed il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore” (Magnificat).
Maria, con tutta la delicatezza del suo cuore verginale, pone il piccolo Gesù nell’incavo delle braccia di Giuseppe.
È abituato a sollevare travi, pietre e sacchi di grano; eppure quel bambino sembra sovrastare ogni sua forza. I loro occhi si incontrano, quelli del bimbo sembrano sorridere e quelli di Giuseppe si riempiono di lacrime.
Solleva al cielo il Figlio della Promessa e canta l’esultanza d’Israele: “Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli. Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8).
In quella notte santa, la più felice di tutte le notti, dove la Luce del Paradiso ha baciato l’arida terra.
Dove Gesù è nato ed è stato allattato.
Dove i pastori, guidati dalle voci angeliche, hanno corso, saltato cespugli e dirupi, con le loro greggi, e giunti davanti a Maria e al bambino si sono donati in un sorriso di beatitudine che nessuno di loro aveva pronunciato fino ad allora.
Otto giorni dopo, secondo le prescrizioni della Torah, il bambino fu circonciso e come era stato annunciato in sogno dall’angelo, Giuseppe gli diede il nome Gesù, “Dio salva”.
La famiglia tornò a vivere a Nazareth e tutto il paese si rallegrò e venne a presentare i propri doni per la nascita del loro primogenito.
Giuseppe, nel giardino adiacente alla loro casa di Nazareth, rivive al mattino di ogni giorno questi eventi e il suo cuore si strugge e si commuove.
Sembra voler esplodere di una gioia e di una gratitudine sempre nuove.
E avverte, così vere e profonde nell’intimo della sua vicenda, l’esclamazione del salmista: “Quanti prodigi tu hai fatto, Signore Dio mio, quali disegni in nostro favore: nessuno a te si può paragonare. Se li voglio annunziare e proclamare sono troppi per essere contati. Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: "Ecco, io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore" (Sal 40).
“Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà”.
Non c’è mai stato alcun altro desiderio, nella memoria di Giuseppe, fin dal suo primo atto cosciente.
La sua santità splende proprio attraverso la sua umiltà.
Nascosto nell’obbedienza a Dio egli è l’ombra del Padre. Il suo spirito vive in Dio.
Uomo saggio e prudente, paziente e buono, non sarà mai separato dalla redenzione che Gesù compirà. Le sarà invece intimamente connesso perché consumerà tutta quanta la sua esistenza, nella gioia e nel dolore, aiutando, custodendo e proteggendo quel Bambino, a costo del suo sacrificio.
Tra qualche momento andrà nella sua bottega, per dare inizio ad una nuova giornata di lavoro.
Prima, però, finirà un giocattolo che sta scolpendo nel legno di cedro per il piccolo Gesù.
Rappresenta una pecora, dall’aria simpatica e mansueta. Giuseppe l’ha collocata su un basamento provvisto di quattro piccole ruote di legno.
La nasconderà ai piedi del letto del suo bambino, perché svegliandosi, possa subito correre felice tra la casa, la bottega ed il giardino.
Insieme a quella pecorella, a cui senza ombra di dubbio sua madre saprà trovare un nome appropriato.
E Giuseppe sorride beato, mentre le sue mani sembrano trasmettere al legno tutto l’amore che quel Bambino e la sua Madre hanno saputo accendere nel suo cuore.